La casa di carta è una serie tv che ho iniziato e finito
in soli tre giorni e che è riuscita a entrarmi in testa in modo allucinante.
Non mi capita spesso, in genere mi affeziono a tutte le serie che guardo (e
sono tante, davvero), ma questa è riuscita a toccare una corda della mia anima
malandata.
Fatta eccezione delle soap che mia madre mi costringe a guardare,
la mia ultima esperienza con serie televisive spagnole risale alla
preadolescenza. Era il periodo in cui tutti erano fissati con Paso adelante e
io lo detestavo. Non volevo calarmi in un’altra serie spagnola che ero certa mi
avrebbe delusa, poi però ho visto il cast e mi sono data una mossa. Ringrazio
mia madre per avermi fatto conoscere Alvaro Morte (Professore) e Jaime Lorente
(Denver) quando ancora il resto d’Italia non se li cagava neppure per sbaglio, è
stata la loro presenza a incuriosirmi e a farmi iniziare questa serie. E grazie
anche a donna Francisca, è merito suo se il Professore è diventato un genio del
crimine!
Ma bando alle ciance, vi lascio al trailer e tra poco vi
dirò cosa ne penso.
Titolo: La casa di carta
Titolo originale: La casa de papel
Nazione: Spagna
Dove trovarlo: Netflix
Stagioni: 2+ (è stata confermata una terza stagione che uscirà nel 2019)
Voto: 5/5
Voto: 5/5
Un uomo del quale non si sa nulla recluta otto persone
per portare avanti un piano che ha dell’incredibile: rapinare la zecca di stato
spagnola. Il
professore, è così che si fa chiamare, sceglie i suoi nuovi compagni tra i reietti
della società, coloro che non hanno nulla da perdere. E così, per cinque interi
mesi, li addestra in una tenuta nelle campagne di Toledo e li prepara a tutti
gli imprevisti che potrebbero capitare. L’obiettivo prefissato è riuscire a
portare via dalla zecca 2,4 miliardi di euro. Il piano del professore si
compone di poche regole che devono essere tassativamente rispettate per salvarsi
la pelle e uscire incolumi dalla zecca.
Nessuno degli otto compagni può svelare la propria
identità e a ognuno viene assegnato un nome di città: Tokyo, Denver, Rio,
Mosca, Oslo, Helsinki, Berlino e Nairobi. È inoltre vietato intrattenere
relazioni sentimentali. L’unica relazione concessa, per forza di cose, è quella
tra Denver e Mosca, padre e figlio.
La serie è ricca di flashback che ci permettono di
conoscere meglio sia il piano che i personaggi. Veniamo guidati dalla voce
narrante di Tokyo e conosciamo, pian piano, tutti gli aspetti di questa folle
impresa.
Ma quanto sono geniali? Una cosa che tutti hanno visto,
basta guardare il trailer o anche solo delle foto sui social, è l’abbigliamento
dei rapinatori. Una tuta rossa e una maschera di Salvador Dalí. Potrebbe
sembrare un particolare irrilevante e invece è importantissimo, un dettaglio che nasce da una grande intelligenza. Se questa serie ci insegna qualcosa, quel qualcosa è: bisogna sempre pensare a ogni dettaglio ed essere sempre un passo avanti agli altri.
Una delle cose che più mi ha preso è la sigla. L’ho
adorata, visivamente è molto semplice ma d’impatto e la canzone è davvero
bellissima. La ascolto da giorni e non mi ha ancora stufata. Ve la lascio qui:
Andando avanti con gli episodi, si prova una sempre più
forte vicinanza con i rapinatori. Perché, nonostante tutto, sono a loro modo
gentili. Hanno una regola da rispettare, forse la più importante: non uccidere.
Non devono uccidere i poliziotti che tentano in ogni modo di entrare nella zecca
per stanarli e non devono uccidere i 67 ostaggi. E proprio questi ultimi
vengono trattati con gentilezza (nei limiti del possibile, sono pur sempre
ostaggi) e con loro i rapinatori tentano di instaurare un rapporto basato sull’empatia
e anche un po’ sulla fiducia. Sono costretti a vivere per giorni sotto la
costante minaccia delle armi, ma vengono nutriti, curati e tranquillizzati. I rapinatori
li chiamano per nome, prestano attenzione ai loro bisogni ed esaudiscono le
loro richieste.
Credo che una delle caratteristiche vincenti di questa serie
sia proprio questa: il rispetto che i rapinatori hanno della vita, sebbene si
tratti comunque di un rispetto volto a proteggere i propri interessi.
Potrebbero uccidere tutti, potrebbero uccidere anche i poliziotti che tentano
di stanarli, e invece non lo fanno. Sparano per aria, sparano in basso, ma non
lo fanno quasi mai ad altezza uomo. Li hanno definiti “criminali gentili” e non
potrei essere più d’accordo. E anche questa caratteristica è stata studiata a
tavolino per anni. Il professore vuole che l’opinione pubblica simpatizzi con i
rapinatori, perché sono la resistenza, sono la voce del popolo. Loro non rubano
il denaro di altri, non entrano in una banca per rubare i risparmi del popolo,
ed è proprio questo a fare la differenza nella mente di chi segue la vicenda dall’esterno.
Questo gruppo di rapinatori non fa richieste assurde alla
polizia perché vuole che vengano esaudite, le fa perché cerca di ottenere l’unica
cosa che vuole davvero: il tempo.
Il
tempo è denaro: mai parole furono più vere. Non
posso dire altro, perché il rischio di spoiler è sempre in agguato.
Posso però dirvi che questa serie è ricca di colpi di
scena, non si sta mai tranquilli. Quando pensi “è finita”, ecco che arriva la
cosa che non ti aspetti. Gli imprevisti sono sempre in agguato e non mancano le
sorprese. Una mente che riesce a ideare un piano tanto ingegnoso e
impenetrabile (almeno per una buona parte) non può che essere geniale. E allora
è normale ritrovarsi lì a simpatizzare per i criminali, a sperare che ce la
facciano e che la polizia sia sempre un passo dietro a loro.
Vi consiglio questa serie? Non potrei fare altrimenti.
Sono rimasta incollata alla tv per tre giorni di fila, a guardare un episodio
dietro l’altro e…
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